Uomini che odiano le mosche

La stragrande maggioranza della fantascienza e dell’horror a tema insetti vede in questi animali una minaccia per l’umanità. Fin dagli anni ‘50, periodo d’oro per i B-movie, sui nostri schermi appaiono enormi insetti inarrestabili, mutati, ingigantiti e con una passione smodata per la carne umana o per la distruzione di paesi e città. Varianti su questo tema, sono gli enormi sciami di insetti “normali” che calano sull’inerme popolazione, decimandola e divorandola. Il capostipite di questo sottogenere di cinematografia, è probabilmente da identificarsi in THEM!, noto al pubblico italiano come “Assalto alla Terra”. In questa pellicola del 1954 troviamo gigantesche formiche della specie Camponotus vicinus mutate dalle radiazioni degli esperimenti nucleari americani svolti nei deserti del New Mexico (poligono missilistico di White Sands, nei pressi di Alamogordo). 

 
Un esemplare di Camponotus vicinus

Non è il primo esempio assoluto di film a base di radiazioni e mostri giganti (basti pensare a “Il risveglio del dinosauro” del 1953, che a sua volta ispirerà il primo Godzilla del 1954) ma è uno dei più importanti e di maggior successo. Rivoluzionò il cinema di genere: in un periodo in cui andavano per la maggior i film a base di invasori alieni, metafore della paura americana di un’invasione sovietica, “Assalto alla Terra” ci presenta una variazione su questa metafora. Le formiche giganti sono figlie delle armi nucleari, le cui radiazione le hanno trasformate in mostri giganteschi. Per quanto anche questa tematica sia figlia delle Guerra Fredda, il cambio di visione si ha dalla paura del distruttore esterno (la Russia e il comunismo) a quello del timore per l’autodistruzione a causa della guerra atomica, non importa la nazionalità belle bombe nucleari usate. Il pericolo molto concreto di un evento del genere in quel periodo storico, portò ad esorcizzare e a metabolizzare questa paura tramite moltissimi film, e “Assalto alla Terra” è tra questi. Son stati gli esperimenti nucleari americani e le loro armi atomiche a far nascere i mostri del film, e questi mostri ora minacciano l’umanità intera. Una metafora dei tempi in cui è stato girato insomma, come ogni buon film dovrebbe essere. Nei film a base di insetti giganti, il problema viene generalmente risolto alla maniera americana: grossi fucili, grosse bombe, grossi lanciafiamme. La soluzione è semplicemente quella di eliminare il mostro di turno senza andare ad intervenire sulle cause che l’han provocato. Riguardo questi aspetti autodistruttivi e di danni provocati dall’uomo possiamo vedere delle analogie con un racconto di fantascienza del 1929, avente come “protagonisti”, di nuovo, gli insetti. 

 

Copertina dell'edizione del 1933 di "The meeting place"

“The man who hated flies” (“L’uomo che odiava le mosche”), questo il titolo del racconto in oggetto, scritto da J. D. Beresford e reperibile nella raccolta “The meeting place”, pone un interessante quesito: se l’intervento umano, invece di trasformare gli insetti in mostri come nei film degli anni ‘50 e ‘60, li facesse estinguere quasi del tutto? È questo lo scenario che incontriamo in questa breve ma interessante opera che probabilmente rappresenta il primo esempio di fantascienza “ecologica”. La trama è piuttosto semplice, e in alcuni punti pecca di ingenuità scientifica (almeno rispetto alle conoscenze attuali), ma i punti centrali sono corretti e aprono la strada a diverse riflessioni. Il protagonista del racconto, il professore Aumonier ha un problema: è ossessionato e terrorizzato dalle mosche, soprattutto perché le considera implacabili vettrici di germi, sporcizia e malattie. La sua ossessione arriva al punto da dedicare 20 anni della sua vita ad una soluzione a questo “problema”. La soluzione sarà il “germe A-A”, un patogeno da lui isolato e selezionato, letale nel 100% delle mosche che lo contraggono ed estremamente contagioso. Nel giro di pochi anni, il germe si diffonde su scala globale, sterminando qualunque tipo di mosca. Si scopre però che “A-A” è molto meno selettivo di quello che il professore pensava: inizia a trasmettersi anche a tutti gli altri insetti. È l’inizio di un’apocalisse ecologica.

E sebbene nessuno eccetto gli entomologi rimpiangesse grandemente nessun di loro, l’umanità tutta fu di colpo messa faccia a faccia con i fatti che erano conoscenza comune fin dai tempi di Charles Darwin, in particolare, che la maggior parte dei frutti, delle verdure e dei fiori dipendono per la loro esistenza dal piacevole lavoro dello sciamante molto degli insetti” - J.D. Beresford

A causa della scomparsa degli insetti, migliaia di specie vegetali spariscono, e spariscono anche gli uccelli che si nutrono di insetti o di determinati frutti. Nella realtà, se davvero sparissero tutti gli insetti dalla Terra, ci troveremmo di fronte probabilmente al totale collasso di qualsiasi ecosistema terrestre esistente, tanto sono basilari e fondamentali questi piccoli grandiosi animali. Essi sono la base di moltissime catene alimentari, fungendo come fonte di cibo per decine di migliaia di specie insettivore o onnivore. La loro coevoluzione con le piante da fiore, iniziata fin dalla loro comparsa nel Cretaceo (verosimilmente intorno ai 110-130 milioni di anni fa) è ormai affinata in simbiosi mutualistiche, in cui gli insetti si nutrono in maniera pressoché esclusiva del polline e del nettare di determinate specie vegetali e a loro volta queste ottengono la possibilità di riprodursi tramite l’impollinazione. Il racconto porta ad un’estrema semplificazione questo concetto, limitandosi a sottolineare come l’uomo perda una parte dei propri cibi, ovvero tutti quelli dipendenti dall’impollinazione entomofila (per fare un esempio, la maggior parte della frutta), senza considerare appunto gli aspetti generali ecologici che la scomparse degli insetti avrebbe sull’intera biosfera.

Se la malattia avesse colpito soltanto le mosche domestiche, non sarebbe importato, esse svolgono poco o nessun ruolo di trasportatrici di polline. Ma nessuno avrebbe potuto prevedere che ogni forma di insetto sarebbe stata coinvolta.”- J.D. Beresford

Il passaggio del racconto riportato qui sopra evidenzia proprio questa visione limitata ed utilitaristica da un punto di vista antropico degli insetti. Le mosche vengono viste come un qualcosa di inutile e fastidioso, e solo da eliminare. Questa visione purtroppo è quella tipica della maggior parte delle persone ancora oggi, che vedono negli insetti soltanto qualcosa di fastidioso, schifoso, inutile e pericoloso. In realtà le specie che possono in qualche modo danneggiare l’uomo direttamente o indirettamente sono una percentuale ridicola di quelle esistenti. La percezione negativa di questo enorme gruppo di animali è di norma figlia di cattiva educazione scientifica e ambientale, di pregiudizi e di leggende metropolitane varie ed eventuali. Uno dei pochissimi insetti che vengono sempre visti come qualcosa di positivo è l’ape da miele, erroneamente creduta in via di estinzione e fondamentale per l’esistenza umana, entrambe cose non vere (ma questo sarà argomento di un altro articolo). Ritornando alle mosche, per quanto l’uomo le veda solo come una piaga biblica, esse hanno ruolo importantissimi. Innanzitutto, moltissime famiglie (quali ad esempio i sirfidi) svolgono anch’essi importanti ruoli di impollinazione, al pari degli apoidei. Centinaia di specie invece sono fondamentali per il riciclo della materia organica, e il loro essere necrofaghe permette che la biomassa morta diventi nuovamente disponibile per altri esseri viventi; negli ambienti terrestri, in questo compito, sono secondi solo ai funghi e i batteri tipici della decomposizione. Insomma, Beresford nel suo racconto ha mancato in pieno questo fondamentale punto, e come non esista specie utile o inutile sulla faccia della Terra: tutti gli esseri viventi occupano una loro nicchia, e ognuno è un tassello fondamentale di un qualche ecosistema.

 

E con la perdita degli insetti e degli uccelli, qualcosa di musicale era svanito dalla Terra. Il mondo era più fermo che in passato, meno bello, evidentemente moribondo. C’era meno colore, meno varietà, meno vitalità.”

Come detto sopra, la scomparsa degli insetti ha quindi un enorme impatto anche su altre specie animali, per quanto nel racconto sia messa in evidenza in modo molto poetico solo la scomparsa degli uccelli insettivori e di quelli che si nutrono dei frutti nati dall’impollinazione entomofila. All’impollinazione entomofila sono legate moltissime colture ortofrutticole umane, e la carenza di impollinatori porterebbe alla scomparsa di diversi tipi di cibo dalle nostre tavole. È una delle conseguenze sottolineate in “The man who hated flies”, e i pochi frutti che vengono prodotti in questo silenzioso mondo post-apocalittico sono diventati un bene di lusso per pochi, essendo nati da lente e difficili operazioni di impollinazione manuale effettuate dall’uomo.

Il figlio del professore dedica quindi anni di ricerche per trovare una soluzione alla devastazione provocata dal padre. Localizza in Amazzonia una rara specie di mosca impollinatrice resistente al germe, e si dice fiducioso di poterla selezionare in modo che si adatti ad ogni ambiente del mondo, andando a sostituire gli impollinatori perduti. Una soluzione artificiale che andrebbe a tamponare i problemi umani di produzione di cibo, ma che di certo non guarirebbe gli ecosistemi ormai distrutti.

Non vi è dubbio, la Provvidenza aveva sicuramente qualche buon motivo nel lasciare che le mosche venissero uccise, e noi abbiamo tutti i frutti che vogliamo qui.”

Questa frase con cui si conclude il racconto e che viene pronunciata dalla moglie del professore, è una sintesi di tutto quello che di sbagliato è presente nella moderna concezione di ambiente ed ecologia che spesso le persone hanno. Se qualche problema non ci tocca direttamente, lo ignoriamo. Se a un qualche problema, abbiamo una soluzione che possiamo permetterci (ad esempio, essere abbastanza ricchi da poter comprare frutta e verdura), allora non è un problema. Questo atteggiamento tipico del mondo capitalista è quanto di più dannoso esista per l’ambiente: ci spinge a consumare senza preoccuparci delle conseguenze fino a quando queste conseguenze non ci colpiscono direttamente. Quando questo succede, non agiamo per eliminare la causa, ma cerchiamo una soluzione di norma poco o nulla efficace che ci permetta di continuare a consumare come vogliamo, poco importa se l’ambiente o altre popolazioni ne pagano le conseguenze. È quanto mai necessario per l’umanità un cambio di paradigma: cambiare e modificare i mezzi di produzione, le pratiche agricole e i nostri stili di vita in modo che siano più ecocompatibili ed equi per ogni popolazione mondiale. La scomparsa degli insetti è un problema reale e contemporaneo: si calcola che circa il 30% delle specie sia in via di estinzione, e che il 50% sia in rarefazione. Come detto sopra, le conseguenze ecosistemiche di queste perdite sono enormi e non quantificabili, e non sappiamo se e quando si raggiungerà un punto di non ritorno con ripercussioni gravissime anche per l’umanità. Le cause della scomparsa degli insetti e degli artropodi in generale sono fondamentalmente due: pratiche agricole troppo impattanti e distruzione di habitat selvatici (per far spazio ad agricoltura intensiva o al cemento). Se non si agirà in fretta e nel modo giusto smettendo questa sistematica opera di distruzione fatta in nome del profitto, i problemi e le catastrofi già in atto potranno soltanto aggravarsi fino a quando non saranno più né risolvibili, né ripristinabili, né mitigabili.

 

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